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Telefona tra vent’anni

il deserto delle buone intenzioni...

Magari proprio vent’anni no ma quasi dieci. A leggere i resoconti dalla conferenza di Durban è questo il tempo che dovremo aspettare per vedere tutti i paesi del mondo impegnati nel taglio delle emissioni serra. Si tratta di un ritardo forse fatale, il clima non aspetta il 2020, sta già ammattendo adesso, entro i prossimi anni la situazione potrebbe diventare del tutto incontrollabile. Ricordo che lo “spread del clima”, cioè la concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera, ha superato livello 390 mentre secondo molti studiosi sarebbe molto meglio per tutti se tornasse a livello 350, dov’eravamo circa vent’anni fa. Oltre alla CO2 sono rampanti anche il metano e il protossido di azoto, entrambi in buon parte di origine agricola, un’agricoltura sempre più concimata e orientata alla produzione di carne bovina. In cambio di questa abbondanza di inquinanti il sistema climatico sta rispondendo con lo scioglimento dei ghiacci artici e alpini, l’aumento delle temperature e della frequenza di alluvioni e siccità. Sale il livello del mare, procede l’acidificazione degli oceani, e la scomparsa di barriere coralline e piccole isole diventa sempre più probabile. Che la conferenza fosse destinata a questo esito era comunque abbastanza chiaro fin dal mese scorso, come si legge in questo articolo del Guardian datato 2o novembre.  C’è comunque qualcuno che considera l’accordo di sabato in Sudafrica un mezzo successo,  io non sono tra quelli, e sono molto preoccupato, soprattutto per i miei figli,  che mi chiedono come mai non sia ancora arrivata la neve. Temo dovranno abituarsi a vederla tornare sempre più di rado.

Sospendiamo il protocollo di Kyoto?

forse John ha ragione...

Sembra un’idea assurda, chi la propone però non è certo un negazionista, anzi. Si tratta del laburista inglese John Prescott, uno dei protagonisti del negoziato internazionale che portò alla definizione del protocollo di Kyoto nell’ormai remoto 1997. Il protocollo è il primo trattato internazionale che ha imposto agli aderenti di controllare e ridurre le emissioni di gas serra. Per l’Italia il protocollo prevedeva un taglio del 6,5% delle emissioni rispetto al livello del 1990, sembra poco ma in realtà per tagliare le emissioni prima di tutto i paesi aderenti hanno dovuto invertire un trend in salita, il che per l’Italia ha significato un taglio di oltre il 15% rispetto al picco di emissioni raggiunto nel 2004. Ora questo trattato sta per scadere e questo è un dramma perché le nazioni non si riescono ad accordare su cosa deve sostituirlo. Allora, dice Prescott, mettiamolo in animazione sospesa in modo che rimanga in vigore con tutti i suoi meccanismi (che tra l’altro prevedono trasferimenti di risorse verso i paesi più poveri) finché non verrà raggiunto il nuovo compromesso. Maggiori dettagli sulla proposta sono disponibili sull’informatissimo Guardian.

Ben detto Benedetto

...stavolta l'ha detta giusta...

Ieri Benedetto XVI ha ricordato, parlandone lungamente durante la consueta omelia della domenica dalla finestra di San Pietro, l’avvio della conferenza climatica di Durban che da oggi e per due settimane terrà impegnati migliaia di delegati di tutti i paesi e di numerosissime organizzazioni non governative, nel tentativo di dare un seguito al protocollo di Kyoto che scade l’anno prossimo. Nessun leader politico italiano ha speso negli ultimi giorni o settimane una sola sillaba sull’argomento: tutti parlano solo di crisi politica, economica e finanziaria e non vedono la macroscopica crisi planetaria nella quale ci stanno avvitando consumi energetici senza senso e conseguenti emissioni di gas serra. Il papa ha giustamente ricollegato la questione climatica a quella della povertà (sono proprio i paesi più poveri delle zone tropicali a sopportare il maggior peso degli sconvolgimenti del clima) e del destino delle future generazioni, che dovranno quasi certamente adattarsi a condizioni climatiche ben diverse da quelle cui eravamo abituati nel Novecento. Cito: “Auspico che tutti i membri della comunità internazionale concordino una risposta responsabile, credibile e solidale a questo preoccupante e complesso fenomeno, tenendo conto delle esigenze delle popolazioni più povere e delle generazioni future”. Come non essere d’accordo?

Le signore del clima

felicitazioni!

Si chiamano Patricia Espinosa e Christiana Figueres, la prima messicana e la seconda costaricana, e sono loro ad avere il merito di questo inatteso successo diplomatico: la rinascita della trattativa globale sul clima a Cancùn, dopo la tremenda batosta di Copenaghen l’anno scorso. Della Figueres abbiamo già parlato, ha preso il posto all’Unfccc di Yvo de Boer, sconfitto nel 2009 dalle recalcitranze dei grandi paesi emettitori di gas serra. Ma è Patricia Espinosa, la rappresentante governativa del Messico e presidente della conferenza Cop16, ad aver dominato i febbrili negoziati finali e ad aver indotto anche i paesi emergenti (forse è il caso di chiamarli ormai emersi del tutto) ad accettare l’idea di limiti alle emissioni e di controlli da parte di terzi, anche se in un futuro ancora non ben definito. Con questo tipo di concessione, per ora ancora astratta ma solenne, da parte di India e Cina, anche il rappresentante Usa ha potuto portare a casa un successo e ha aderito al documento finale. Che prevede molte cose importanti, un meccanismo di compensazione per i paesi che evitano di tagliare le proprie foreste tropicali, un fondo internazionale per gestire l’adattamento ai cambiamenti inevitabili, e soprattutto una bozza di accordo che dovrà sostituire l’anno prossimo a Durban (Sud Africa) il protocollo di Kyoto in scadenza, con nuovi tagli alle emissioni per il 2020. Come avevamo immaginato, l’assenza di attenzione da parte dell’opinione pubblica mondiale, presa da altro in queste settimane ha consentito un successo inatteso. Quando si hanno troppe aspettative ogni compromesso è un delusione, quando non se hanno affatto ogni piccolo risultato è un bel regalo. Grazie dunque a Christiana e Patricia.

 

Cancùn, non ne parla nisùn?

...lui ci va, e già ne parla da un po'...

Dopo il mezzo o totale fallimento di Copenaghen l’anno scorso, che ha comportato le dimissioni di Yvo de Groot dal Unfccc, organismo dell’Onu che presiede al trattato globale sul clima, e la sua sostituzione con la signora Figueres, si avvicina ora la nuova conferenza climatica internazionale Cop16, che dal 28 novembre al 10 dicembre terrà occupati in Messico migliaia di delegati e militanti ambientalisti, compreso il nostro amico Luca Lombroso (foto) che speriamo ci mandi qualche corrispondenza. Da Copenaghen in avanti questo 2010 è stato purtroppo un annus horribilis per chi come noi è fermamente convinto della realtà del cambiamento climatico di origine antropica e della necessità urgente ed assoluta di intervenire drasticamente sulle emissioni di gas serra prima che sia troppo tardi. La sequenza di fattacci ha incluso lo scandalo delle email trafugate dall’università di East Anglia, che i giornali anglosassoni hanno ribattezzato subito Climategate in assonanza al vero scandalo costituito dal Watergate di nixoniana memoria, la scoperta di un errore grossolano nel quarto rapporto Ipcc (dove a un certo punto si scrive che i ghiacciai himalayani potrebbero sciogliersi entro il 2035 mentre probabilmente l’anno corretto è 2350) e le polemiche sorte intorno alla figura di Rajendra Pachauri, l’ingegnere indiano che coordina da diversi anni lo stesso Ipcc. In sostanza nel giro di pochissimo tempo la questione climatica è passata dalle stelle del premio Nobel per la pace, concesso all’Ipcc e ad Al Gore, alle stalle delle commissioni d’inchiesta e al buio mediatico. Siccome le commissioni d’inchiesta hanno valutato che in sostanza il Climategate era una bufala, e che sì, è meglio che l’Ipcc stringa di più le reti attraverso cui passano le migliaia di articoli che vengono esaminati, ma che la sostanza scientifica dei suoi rapporti resta invariata, questo buio mediatico spaventa perché l’anno prossimo scade il protocollo di Kyoto ed un nuovo accordo per tagliare le emissioni è indispensabile. O forse proprio a causa dell’assenza di un’attenzione mediatica ossessiva ci potremmo aspettare qualche risultato di rilievo? Speriamo che sia così e che comunque per cercare notizie sull’imminente conferenza non ci tocchi di continuare a leggere i siti svizzeri.

Messico e nuvole

 

...lo capiscono anche i bambini...

 

Ci risiamo, un’altra conferenza mondiale sul clima è alle porte e tutti già sanno che sarà un fallimento. Stavolta la grande carovana di delegati da 190 paesi si riunirà sulla costa messicana, nel centro balneare di Cancùn, un tempo magnifico promontorio sul Golfo del Messico ridotto ora a brutta fungaia di alberghi verticali per turisti americani, dove io non metterei mai piede. Ci metteranno piede invece migliaia di persone a dicembre per partecipare alla conferenza COP16, alcuni nella speranza di un accordo globale per il taglio delle emissioni di co2, molti altri nella speranza opposta di bloccare l’accordo e tornare a casa ad inquinare come se niente fosse. Intanto il pianeta si riscalda e il 2010 si avvia ad essere un anno record, come avevano previsto i meteorologi inglesi l’anno scorso alla COP15 di Copenaghen. I motivi del fallimento prossimo venturo sono molteplici e complessi, mettiamoci prima di tutto la delicata situazione in cui si trova Obama a causa delle prossime elezioni di metà mandato (e non di “medio termine” come si sente dire da certi giornalisti) che sconsiglia di assumere prese di posizione radicali sulla questione delle emissioni statunitensi, mettiamoci anche la voglia dei paesi emergenti, i cosiddetti Basics (Brasile Sudafrica India e Cina), di continuare a crescere senza lasciarsi condizionare da trattati vincolanti, e da ultimo mettiamoci anche un’opinione pubblica mondiale distratta da altre questioni tutt’altro che banali come il nucleare in Corea del Nord e Iran, la perdurante crisi del Medio Oriente, le guerre interminabili in Iraq e Afganistan, col loro sanguinoso strascico di morti. Comunque non tutti sono distratti, come dimostrano gli oltre 7000 eventi del Global work party, organizzato da 350.org, l’organismo non governativo che chiede al mondo di abbassare il livello della co2 dagli attuali 390 ppm ai 350 di trent’anni fa, un livello considerato più sicuro per contrastare l’aumento globale delle temperature.

La signora del clima

...dai Christiana, che ce la fai!

Si chiama Christiana Figueres ed è la sostituta di Yvo de Boer, che lascia la guida dell’Unfccc a fine mese, dopo la figuraccia di Flopenaghen. Ha diversi vantaggi su di lui, primo è donna, secondo è costaricana quindi parla lo spagnolo, la lingua che predominerà nella conferenza climatica di Cancun nel Messico (29 novembre – 10 dicembre 2010), e viene da un paese che sta facendo moltissimo per ripristinare la propria foresta tropicale (e che, unico al mondo, non ha un esercito, abolito dal padre di Christiana, un energico socialista democratico tre volte presidente del Costa Rica). Inoltre ha una vasta esperienza in campo climatico e conosce bene l’ambiente di Washington, il che non guasta in queste cose. Intanto fervono a Bonn i lavori preparatori della conferenza di Cancun, con ben 4500 partecipanti inviati dagli stati di tutto il mondo (alla faccia delle teleconferenze).

Da Flopenaghen, con rabbia…

Cara sirenetta, ci hai proprio deluso...

Il non-accordo

Lorenzo Fioramonti, 20 dicembre 2009

Come previsto, l’accordo di Copenaghen è stato un non-accordo, giusto per non perdere completamente la faccia. Abbiamo assistito all’ultimo atto di una conferenza deprimente, mal gestita e sorda alle richieste di milioni e milioni di cittadini in tutto il mondo. È un non-accordo perché non accontenta nessuno. Non risponde alle richieste degli stati insulari, che chiedevano tagli certi e rapidi alle emissioni. Non accontenta i paesi più poveri che volevano investimenti sicuri e regolari per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Non accontenta i paesi europei che chiedevano tagli incisivi nei prossimi anni. Non risponde ai risultati della ricerca scientifica che individuava standard precisi di riduzione che non verranno mai rispettati. Si tratta di promesse, semplicemente parole. Così come le promesse sull’aumento dei fondi allo sviluppo (il famoso 0,7 del PIL), da sempre disattese. O quelle degli obiettivi del millennio, una pantomima ridicola di menefreghismo internazionale. Siamo nuovamente al punto di partenza. Non solo non si è deciso nulla, ma si è messo l’orologio avanti di un anno. Chissà se il 2010 porterà consiglio. C’è sicuramente poco da sperare, a meno che i cittadini non comincino a far sentire la propria voce. A partire da ora.

Il nostro uomo alla COP

grazie Lorenzo!

Anche Pianetaserra ha un inviato a Copenaghen! Scrive per noi Lorenzo Fioramonti, collaboratore al Dipartimento di politica istituzione e storia dell’università di Bologna, collaboratore di Sbilanciamoci.info e anche autore del film The age of adaptation. Ecco di seguito il suo primo reportage.

No money, no deal

C’era da aspettarselo: la strada dei negoziati di Copenhagen prosegue in salita. La seconda e ultima settimana di lavori si apre nel segno dello scontro, con i rappresentanti africani che hanno abbandonato temporaneamente i negoziati per protestare contro il rischio che il testo finale si discosti troppo dagli impegni presi a Kyoto. Il ‘walkout’ africano di lunedì mattina ha fatto seguito ad un fine settimana molto turbolento, che ha visto la marcia dei movimenti sociali e della società civile terminare con circa un migliaio di persone arrestate. Nella capitale danese, nonostante il freddo polare, il clima si surriscalda ogni ora che passa.

In un tentativo di rimescolare le carte, il governo messicano e quello norvegese hanno presentato una proposta comune per la costituzione di un Fondo Verde che, sostenuto attraverso delle aste internazionali, riesca a finanziare le politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. In questo modo, il mercato fa da sé e non c’è troppo bisogno di impegnare risorse ingenti hic et nunc. Ma se questa proposta offre un sospiro di sollievo ai paesi industrializzati (che non vogliono pagare il conto), mette in agitazione quelli più poveri, a partire dalle nazioni africane. Chi garantisce che i finanziamenti dal nord al sud cresceranno con il tempo? E se il prezzo dei crediti dovesse crollare (come è già accaduto nel mercato europeo)?

Le tipiche incertezze del mercato, qualcuno ci dice. Quindi, mentre la questione del debito climatico torna prepotentemente sulla scena, le proteste di attivisti, movimenti e cittadini si diffondono per il mondo. Sabato scorso c’è stata la marcia dei movimenti. Colorata, vivace e molto partecipata, nonostante l’arresto di circa un migliaio di dimostranti da parte della polizia danese. In tutto il mondo le hanno fatto eco oltre quattromila iniziative secondo Greenpeace. E la scienza? È rimasta in un angolo, sepolta dai cumuli di carte che vengono stampate, corrette ed emendate ogni ora. L’IPCC chiede infatti una riduzione di emissioni tra il 25% ed il 40% entro il 2020 per evitare che l’aumento della temperatura media del pianeta superi i 2 gradi . Ma uno studio appena pubblicato rivela che, mettendo insieme le proposte fatte finora dai principali paesi inquinanti, la riduzione ammonterebbe solo ad un 8-12%. Meno della metà di quanto sarebbe necessario. E chi pagherà il prezzo salato di un accordo che non dovesse servire a niente? (Copenaghen, 14 dicembre 2009)

Lorenzo Fioramonti,  promotore della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema

No money, no deal

Di Lorenzo Fioramonti

C’era da aspettarselo: la strada dei negoziati di Copenhagen prosegue in salita. La seconda e ultima settimana di lavori si apre nel segno dello scontro, con i rappresentanti africani che hanno abbandonato temporaneamente i negoziati per protestare contro il rischio che il testo finale si discosti troppo dagli impegni presi a Kyoto. Il ‘walkout’ africano di lunedì mattina ha fatto seguito ad un fine settimana molto turbolento, che ha visto la marcia dei movimenti sociali e della società civile terminare con circa un migliaio di persone arrestate. Nella capitale danese, nonostante il freddo polare, il clima si surriscalda ogni ora che passa.

In un tentativo di rimescolare le carte, il governo messicano e quello norvegese hanno presentato una proposta comune per la costituzione di un Fondo Verde che, sostenuto attraverso delle aste internazionali, riesca a finanziare le politiche di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. In questo modo, il mercato fa da sé e non c’è troppo bisogno di impegnare risorse ingenti hic et nunc. Ma se questa proposta offre un sospiro di sollievo ai paesi industrializzati (che non voglio pagare il conto), mette in agitazione quelli più poveri, a partire dalle nazioni africane. Chi garantisce che i finanziamenti dal nord al sud cresceranno con il tempo? E se il prezzo dei crediti dovesse crollare (come è già accaduto nel mercato europeo)?

Le tipiche incertezze del mercato, qualcuno di dice. Quindi, mentre la questione del debito climatico torna prepotentemente sulla scena, le proteste di attivisti, movimenti e cittadini si diffondono per il mondo. Sabato scorso c’è stata la marcia dei movimenti. Colorata, vivace e molto partecipata, nonostante l’arresto di circa un migliaio di dimostranti da parte della polizia danese. In tutto il mondo, hanno fatto eco oltre 4,000 iniziative secondo Greenpeace. E la scienza? È rimasta in un angolo, sepolta dai cumuli di carte che vengono stampate, corrette ed emendate ogni ora. L’IPCC chiede infatti una riduzione di emissioni tra il 25% ed il 40% entro il 2020 per evitare l’aumento di 2 gradi della temperatura media del pianeta. Ma uno studio appena pubblicato rivela che, mettendo insieme le proposte fatte finora dai principali paesi inquinanti, la riduzione ammonterebbe ad un 8-12%. Meno della metà di quanto sarebbe necessario. E chi pagherà il prezzo salato di un accordo che non dovesse servire a niente?

L’autore è promotore della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema (www.globalreboot.org)

Flopenaghen? Adesso è una certezza…

Obamao

Le notizie dell’accordo a Singapore tra Obama e Hu Jintao sul clima non potevano essere peggiori. Lungi dall’intraprendere un braccio di ferro con il presidente cinese sulla questione del suo impegno a limitare seriamente le emissioni di gas serra cinesi entro il 2050, il presidente Usa, che si sta rivelando un’autentica delusione in molti settori, ha deciso, di comune accordo col potente partner commerciale e finanziario, di segare del tutto il ramo peraltro assai sottile sul quale sedeva la conferenza di Copenaghen, tanto che ci domandiamo a questo punto a cosa serva tenerla… In sostanza a Copenaghen non ci sarà la firma di alcun accordo vincolante, cioè con percentuali, scadenze, premi e punizioni, in sostituzione del protocollo di Kyoto, che scade nel 2012. Le difficoltà interne di Obama, che ha una (debole) legge sul clima e l’efficienza energetica approvata alla camera ma ferma al senato,  combinate con quelle economiche e finanziarie (ricordiamo che la Cina detiene un terzo del debito pubblico Usa) hanno prevalso sulle preoccupazioni ambientali. Intanto il mondo continua a scaldarsi, per un’idea precisa degli impatti esaminate la nuova mappa interattiva predisposta dal MetOffice, il prestigioso servizio meteo inglese.