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Telefona tra vent’anni

il deserto delle buone intenzioni...

Magari proprio vent’anni no ma quasi dieci. A leggere i resoconti dalla conferenza di Durban è questo il tempo che dovremo aspettare per vedere tutti i paesi del mondo impegnati nel taglio delle emissioni serra. Si tratta di un ritardo forse fatale, il clima non aspetta il 2020, sta già ammattendo adesso, entro i prossimi anni la situazione potrebbe diventare del tutto incontrollabile. Ricordo che lo “spread del clima”, cioè la concentrazione dell’anidride carbonica in atmosfera, ha superato livello 390 mentre secondo molti studiosi sarebbe molto meglio per tutti se tornasse a livello 350, dov’eravamo circa vent’anni fa. Oltre alla CO2 sono rampanti anche il metano e il protossido di azoto, entrambi in buon parte di origine agricola, un’agricoltura sempre più concimata e orientata alla produzione di carne bovina. In cambio di questa abbondanza di inquinanti il sistema climatico sta rispondendo con lo scioglimento dei ghiacci artici e alpini, l’aumento delle temperature e della frequenza di alluvioni e siccità. Sale il livello del mare, procede l’acidificazione degli oceani, e la scomparsa di barriere coralline e piccole isole diventa sempre più probabile. Che la conferenza fosse destinata a questo esito era comunque abbastanza chiaro fin dal mese scorso, come si legge in questo articolo del Guardian datato 2o novembre.  C’è comunque qualcuno che considera l’accordo di sabato in Sudafrica un mezzo successo,  io non sono tra quelli, e sono molto preoccupato, soprattutto per i miei figli,  che mi chiedono come mai non sia ancora arrivata la neve. Temo dovranno abituarsi a vederla tornare sempre più di rado.

Europa e India in contrasto sul clima

...date retta alla gente, non agli inquinatori...

Sopraffatti dalle lacrime governative i giornalisti nostrani non trovano il tempo di occuparsi del futuro del trattato climatico globale, di cui migliaia di delegati discutono a Durban in Sudafrica alla conferenza COP17. Il Guardian ci informa invece che domenica a sorpresa è apparsa una “Durban roadmap” cioè un piano per sbloccare la trattativa. Si tratta di una proposta avanzata dall’Unione europea, accolta con interesse da molti stati ma contrastata fieramente dall’India, che prevede la proroga di Kyoto, e al contempo il varo di un trattato parallelo per il coinvolgimento graduale degli stati in via di sviluppo (come l’India appunto), che dai tempi del protocollo (1997) hanno fatto passi da gigante nell’economia (e nelle emissioni). Il contrasto dell’India trova fondamento sul mancato impegno di grossi emettitori come gli Usa, che al protocollo di Kyoto finora non si sono piegati. Teniamo gli occhi aperti sulla seconda settimana di trattativa, chissà che non ne esca qualcosa di buono.

Sospendiamo il protocollo di Kyoto?

forse John ha ragione...

Sembra un’idea assurda, chi la propone però non è certo un negazionista, anzi. Si tratta del laburista inglese John Prescott, uno dei protagonisti del negoziato internazionale che portò alla definizione del protocollo di Kyoto nell’ormai remoto 1997. Il protocollo è il primo trattato internazionale che ha imposto agli aderenti di controllare e ridurre le emissioni di gas serra. Per l’Italia il protocollo prevedeva un taglio del 6,5% delle emissioni rispetto al livello del 1990, sembra poco ma in realtà per tagliare le emissioni prima di tutto i paesi aderenti hanno dovuto invertire un trend in salita, il che per l’Italia ha significato un taglio di oltre il 15% rispetto al picco di emissioni raggiunto nel 2004. Ora questo trattato sta per scadere e questo è un dramma perché le nazioni non si riescono ad accordare su cosa deve sostituirlo. Allora, dice Prescott, mettiamolo in animazione sospesa in modo che rimanga in vigore con tutti i suoi meccanismi (che tra l’altro prevedono trasferimenti di risorse verso i paesi più poveri) finché non verrà raggiunto il nuovo compromesso. Maggiori dettagli sulla proposta sono disponibili sull’informatissimo Guardian.

Ben detto Benedetto

...stavolta l'ha detta giusta...

Ieri Benedetto XVI ha ricordato, parlandone lungamente durante la consueta omelia della domenica dalla finestra di San Pietro, l’avvio della conferenza climatica di Durban che da oggi e per due settimane terrà impegnati migliaia di delegati di tutti i paesi e di numerosissime organizzazioni non governative, nel tentativo di dare un seguito al protocollo di Kyoto che scade l’anno prossimo. Nessun leader politico italiano ha speso negli ultimi giorni o settimane una sola sillaba sull’argomento: tutti parlano solo di crisi politica, economica e finanziaria e non vedono la macroscopica crisi planetaria nella quale ci stanno avvitando consumi energetici senza senso e conseguenti emissioni di gas serra. Il papa ha giustamente ricollegato la questione climatica a quella della povertà (sono proprio i paesi più poveri delle zone tropicali a sopportare il maggior peso degli sconvolgimenti del clima) e del destino delle future generazioni, che dovranno quasi certamente adattarsi a condizioni climatiche ben diverse da quelle cui eravamo abituati nel Novecento. Cito: “Auspico che tutti i membri della comunità internazionale concordino una risposta responsabile, credibile e solidale a questo preoccupante e complesso fenomeno, tenendo conto delle esigenze delle popolazioni più povere e delle generazioni future”. Come non essere d’accordo?

Negazionismo all’italiana

...eppur si sciolgono...

Immaginate un dibattito su come si guida un’auto, con uno dei protagonisti che mette in dubbio l’esistenza del volante… Ieri mattina ho partecipato in diretta telefonica a una trasmissione di approfondimento della Radio Svizzera Italiana sui risultati del congresso climatico di Cancùn. Da parte svizzera c’erano personaggi rilevanti, addirittura il capo della delegazione di quel paese alla conferenza, Bruno Oberle. Da parte italiana oltre a me, che non sono certo rilevante, ma che almeno so di cosa parlo, c’era un professore di economia dell’università di Pavia, il quale ha esordito con una bordata di ovvietà negazioniste da far rabbrividire, di quelle che si leggono sul Foglio o sul Giornale (e che purtroppo sono persino finite in una mozione parlamentare approvata dal centrodestra qualche mese fa). Ovvietà ampiamente demolite da Stefano Caserini del Politecnico di Milano nel suo libro “A qualcuno piace caldo”, e poi riassunte nel più recente “Guida alle leggende sul clima che cambia“. Sono stato costretto a reagire con una certa veemenza e a ribadire cose che dovrebbero essere assodate, cioè che il cambiamento del clima è già in corso, che questo cambiamento è oltre ogni ragionevole dubbio dovuto all’alterazione umana dell’effetto serra, che è misurabile anche alla scala dell’Emilia-Romagna – dove l’anno scorso abbiamo pubblicato un Atlante idroclimatico con dovizia di dati e cartografie dei cambiamenti in corso, piuttosto allarmanti per entità e velocità – e che se nessuno fa niente di serio il riscaldamento potrebbe superare la soglia di non ritorno e provocare catastrofi. Mi sono sentito rispondere che in Inghilterra nevica, il che dimostra ancora una volta che confusione si fa tra tempo e clima, persino all’università. E mi domando, come mai la radio nazionale della Confederazione non ha trovato modo di far parlare i nostri migliori climatologi ed esperti di energia e politiche del clima? Perché l’opinione pubblica non conosce i vari (vado a casaccio) Navarra, Castellari, Ferrara, Artale, Pasini, Caserini, Giorgi, Gualdi, Miglietta, Carraro, Balzani? Perchè la questione climatica è relegata solo alla nicchia Luca Mercalli, che ne parla trenta secondi da Fazio o in piena notte, oppure a qualche accenno del geologo Mario Tozzi, invece che nelle seguitissime trasmissioni dei vari Angela, oppure nei salotti della Colò? Io penso sia arrivato il momento di agire, magari pubblicare un “paper” in meno e dedicare invece più tempo a comunicare, pretendendo dalla Rai uno spazio più ampio per la vera scienza del clima, e zero spazio per chi confonde gradi con percentuali, secoli con millenni, tempo e clima, come ho sentito fare ieri mattina. I cittadini italiani, almeno quelli che pagano le tasse, se lo meritano. E anche quelli del Canton Ticino.

Cancùn, non ne parla nisùn?

...lui ci va, e già ne parla da un po'...

Dopo il mezzo o totale fallimento di Copenaghen l’anno scorso, che ha comportato le dimissioni di Yvo de Groot dal Unfccc, organismo dell’Onu che presiede al trattato globale sul clima, e la sua sostituzione con la signora Figueres, si avvicina ora la nuova conferenza climatica internazionale Cop16, che dal 28 novembre al 10 dicembre terrà occupati in Messico migliaia di delegati e militanti ambientalisti, compreso il nostro amico Luca Lombroso (foto) che speriamo ci mandi qualche corrispondenza. Da Copenaghen in avanti questo 2010 è stato purtroppo un annus horribilis per chi come noi è fermamente convinto della realtà del cambiamento climatico di origine antropica e della necessità urgente ed assoluta di intervenire drasticamente sulle emissioni di gas serra prima che sia troppo tardi. La sequenza di fattacci ha incluso lo scandalo delle email trafugate dall’università di East Anglia, che i giornali anglosassoni hanno ribattezzato subito Climategate in assonanza al vero scandalo costituito dal Watergate di nixoniana memoria, la scoperta di un errore grossolano nel quarto rapporto Ipcc (dove a un certo punto si scrive che i ghiacciai himalayani potrebbero sciogliersi entro il 2035 mentre probabilmente l’anno corretto è 2350) e le polemiche sorte intorno alla figura di Rajendra Pachauri, l’ingegnere indiano che coordina da diversi anni lo stesso Ipcc. In sostanza nel giro di pochissimo tempo la questione climatica è passata dalle stelle del premio Nobel per la pace, concesso all’Ipcc e ad Al Gore, alle stalle delle commissioni d’inchiesta e al buio mediatico. Siccome le commissioni d’inchiesta hanno valutato che in sostanza il Climategate era una bufala, e che sì, è meglio che l’Ipcc stringa di più le reti attraverso cui passano le migliaia di articoli che vengono esaminati, ma che la sostanza scientifica dei suoi rapporti resta invariata, questo buio mediatico spaventa perché l’anno prossimo scade il protocollo di Kyoto ed un nuovo accordo per tagliare le emissioni è indispensabile. O forse proprio a causa dell’assenza di un’attenzione mediatica ossessiva ci potremmo aspettare qualche risultato di rilievo? Speriamo che sia così e che comunque per cercare notizie sull’imminente conferenza non ci tocchi di continuare a leggere i siti svizzeri.

Messico e nuvole

 

...lo capiscono anche i bambini...

 

Ci risiamo, un’altra conferenza mondiale sul clima è alle porte e tutti già sanno che sarà un fallimento. Stavolta la grande carovana di delegati da 190 paesi si riunirà sulla costa messicana, nel centro balneare di Cancùn, un tempo magnifico promontorio sul Golfo del Messico ridotto ora a brutta fungaia di alberghi verticali per turisti americani, dove io non metterei mai piede. Ci metteranno piede invece migliaia di persone a dicembre per partecipare alla conferenza COP16, alcuni nella speranza di un accordo globale per il taglio delle emissioni di co2, molti altri nella speranza opposta di bloccare l’accordo e tornare a casa ad inquinare come se niente fosse. Intanto il pianeta si riscalda e il 2010 si avvia ad essere un anno record, come avevano previsto i meteorologi inglesi l’anno scorso alla COP15 di Copenaghen. I motivi del fallimento prossimo venturo sono molteplici e complessi, mettiamoci prima di tutto la delicata situazione in cui si trova Obama a causa delle prossime elezioni di metà mandato (e non di “medio termine” come si sente dire da certi giornalisti) che sconsiglia di assumere prese di posizione radicali sulla questione delle emissioni statunitensi, mettiamoci anche la voglia dei paesi emergenti, i cosiddetti Basics (Brasile Sudafrica India e Cina), di continuare a crescere senza lasciarsi condizionare da trattati vincolanti, e da ultimo mettiamoci anche un’opinione pubblica mondiale distratta da altre questioni tutt’altro che banali come il nucleare in Corea del Nord e Iran, la perdurante crisi del Medio Oriente, le guerre interminabili in Iraq e Afganistan, col loro sanguinoso strascico di morti. Comunque non tutti sono distratti, come dimostrano gli oltre 7000 eventi del Global work party, organizzato da 350.org, l’organismo non governativo che chiede al mondo di abbassare il livello della co2 dagli attuali 390 ppm ai 350 di trent’anni fa, un livello considerato più sicuro per contrastare l’aumento globale delle temperature.

Ancora da Flopenaghen, e domani si chiude…

Gli attivisti di Avaaz al Bella Centre di Copenaghen (foto Lombroso)

Il giorno della società civile

Lorenzo Fioramonti, Copenaghen, 16/12/09

Tra due giorni si chiude la COP15 e, salvo colpi di scena, non si arriverà ad un accordo. Già si parla infatti del prossimo appuntamento. Alcuni sperano che si tenga entro la metà del 2010. Al Gore, l’ex vicepresidente americano da anni prestato alla causa climatica, lo ha sottolineato più volte in un discorso tenuto ieri: non si può aspettare un altro anno. Gli africani hanno rivisto alcune delle loro posizioni ed ora si accontentano di un impegno a stanziare 100 miliardi di dollari all’anno per i paesi più poveri entro il 2020. Tra stasera e domani arriveranno tutti i capi di stato e di governo. Vedremo se sarà un’ennesima parata formale senza alcun impatto, oppure qualcuno riuscirà a smuovere le acque.

Intanto oggi la società civile si è fatta sentire, nonostante il freddo e la neve. Alcune migliaia di persone hanno circondato il Bella Centre, dove si svolgono i negoziati, ed una delegazione è riuscita ad entrare nell’edificio. Chiedono di poter partecipare, di far sentire la propria voce e di gridare ‘giustizia’ in faccia ai governanti dei paesi più ricchi e più inquinanti. Il responsabile Onu Yvo de Boer ne ha incontrati alcuni, ma ha detto che “per ragioni di sicurezza l’accesso al centro deve essere limitato”. Un’altra sede verrà allestita per le Ong e i movimenti a partire da domani 17 dicembre (oggi ndr).

I manifestanti sono ancora fuori, che aspettano. Cercano di riscaldarsi come possono, in un clima lugubre e fermo, come se il tempo si fosse bloccato. Tutto il mondo attende un responso, che molto probabilmente non arriverà. La protesta dovrà continuare e, forse, il 2010 vedrà il risorgere di una società civile globale finora assopita. Il clima, a parte il gioco di parole, sembra propizio.

NB E’ importante aggiungere la propria firma a quelle di milioni di altri terrestri per l’appello climatico che Avaaz.org consegna oggi ai grandi convenuti alla conferenza (ndr).

Il nostro uomo alla COP

grazie Lorenzo!

Anche Pianetaserra ha un inviato a Copenaghen! Scrive per noi Lorenzo Fioramonti, collaboratore al Dipartimento di politica istituzione e storia dell’università di Bologna, collaboratore di Sbilanciamoci.info e anche autore del film The age of adaptation. Ecco di seguito il suo primo reportage.

No money, no deal

C’era da aspettarselo: la strada dei negoziati di Copenhagen prosegue in salita. La seconda e ultima settimana di lavori si apre nel segno dello scontro, con i rappresentanti africani che hanno abbandonato temporaneamente i negoziati per protestare contro il rischio che il testo finale si discosti troppo dagli impegni presi a Kyoto. Il ‘walkout’ africano di lunedì mattina ha fatto seguito ad un fine settimana molto turbolento, che ha visto la marcia dei movimenti sociali e della società civile terminare con circa un migliaio di persone arrestate. Nella capitale danese, nonostante il freddo polare, il clima si surriscalda ogni ora che passa.

In un tentativo di rimescolare le carte, il governo messicano e quello norvegese hanno presentato una proposta comune per la costituzione di un Fondo Verde che, sostenuto attraverso delle aste internazionali, riesca a finanziare le politiche di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. In questo modo, il mercato fa da sé e non c’è troppo bisogno di impegnare risorse ingenti hic et nunc. Ma se questa proposta offre un sospiro di sollievo ai paesi industrializzati (che non vogliono pagare il conto), mette in agitazione quelli più poveri, a partire dalle nazioni africane. Chi garantisce che i finanziamenti dal nord al sud cresceranno con il tempo? E se il prezzo dei crediti dovesse crollare (come è già accaduto nel mercato europeo)?

Le tipiche incertezze del mercato, qualcuno ci dice. Quindi, mentre la questione del debito climatico torna prepotentemente sulla scena, le proteste di attivisti, movimenti e cittadini si diffondono per il mondo. Sabato scorso c’è stata la marcia dei movimenti. Colorata, vivace e molto partecipata, nonostante l’arresto di circa un migliaio di dimostranti da parte della polizia danese. In tutto il mondo le hanno fatto eco oltre quattromila iniziative secondo Greenpeace. E la scienza? È rimasta in un angolo, sepolta dai cumuli di carte che vengono stampate, corrette ed emendate ogni ora. L’IPCC chiede infatti una riduzione di emissioni tra il 25% ed il 40% entro il 2020 per evitare che l’aumento della temperatura media del pianeta superi i 2 gradi . Ma uno studio appena pubblicato rivela che, mettendo insieme le proposte fatte finora dai principali paesi inquinanti, la riduzione ammonterebbe solo ad un 8-12%. Meno della metà di quanto sarebbe necessario. E chi pagherà il prezzo salato di un accordo che non dovesse servire a niente? (Copenaghen, 14 dicembre 2009)

Lorenzo Fioramonti,  promotore della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema

No money, no deal

Di Lorenzo Fioramonti

C’era da aspettarselo: la strada dei negoziati di Copenhagen prosegue in salita. La seconda e ultima settimana di lavori si apre nel segno dello scontro, con i rappresentanti africani che hanno abbandonato temporaneamente i negoziati per protestare contro il rischio che il testo finale si discosti troppo dagli impegni presi a Kyoto. Il ‘walkout’ africano di lunedì mattina ha fatto seguito ad un fine settimana molto turbolento, che ha visto la marcia dei movimenti sociali e della società civile terminare con circa un migliaio di persone arrestate. Nella capitale danese, nonostante il freddo polare, il clima si surriscalda ogni ora che passa.

In un tentativo di rimescolare le carte, il governo messicano e quello norvegese hanno presentato una proposta comune per la costituzione di un Fondo Verde che, sostenuto attraverso delle aste internazionali, riesca a finanziare le politiche di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. In questo modo, il mercato fa da sé e non c’è troppo bisogno di impegnare risorse ingenti hic et nunc. Ma se questa proposta offre un sospiro di sollievo ai paesi industrializzati (che non voglio pagare il conto), mette in agitazione quelli più poveri, a partire dalle nazioni africane. Chi garantisce che i finanziamenti dal nord al sud cresceranno con il tempo? E se il prezzo dei crediti dovesse crollare (come è già accaduto nel mercato europeo)?

Le tipiche incertezze del mercato, qualcuno di dice. Quindi, mentre la questione del debito climatico torna prepotentemente sulla scena, le proteste di attivisti, movimenti e cittadini si diffondono per il mondo. Sabato scorso c’è stata la marcia dei movimenti. Colorata, vivace e molto partecipata, nonostante l’arresto di circa un migliaio di dimostranti da parte della polizia danese. In tutto il mondo, hanno fatto eco oltre 4,000 iniziative secondo Greenpeace. E la scienza? È rimasta in un angolo, sepolta dai cumuli di carte che vengono stampate, corrette ed emendate ogni ora. L’IPCC chiede infatti una riduzione di emissioni tra il 25% ed il 40% entro il 2020 per evitare l’aumento di 2 gradi della temperatura media del pianeta. Ma uno studio appena pubblicato rivela che, mettendo insieme le proposte fatte finora dai principali paesi inquinanti, la riduzione ammonterebbe ad un 8-12%. Meno della metà di quanto sarebbe necessario. E chi pagherà il prezzo salato di un accordo che non dovesse servire a niente?

L’autore è promotore della campagna Global Reboot, resettiamo il sistema (www.globalreboot.org)

Un po’ di numeri non fanno mai male

Cominciamo con il nostro obiettivo di Kyoto: noi italiani dobbiamo scendere del 6,5% sotto il livello di emissioni del 1990. Ma quanto emettevamo nel 1990? La risposta si trova nei documenti ufficiali del Unfccc, l’organismo dell’Onu che si occupa dell’attuazione della Convenzione internazionale sul clima, che organizza le conferenze delle parti (COP, la prossima in Polonia) e che raccoglie tutti i dati ufficiali dei paesi aderenti al Protocollo di Kyoto. Nel 1990 l’Italia emetteva 516,851 milioni di tonnellate di gas serra, espresse come equivalente di CO2. E quanto emettiamo adesso? I dati ufficiali si fermano al 2005 quindi riferiamoci a quelli: siamo a 579,548 Mton, il che detto in termini più chiari significa che invece di scendere del 6,5% sotto il livello del 1990 portandoci così a quota 483,256, siamo al 12,1% sopra o se preferite abbiamo quasi 100 milioni di tonnellate di emissioni da smaltire entro il 2012, anno di scadenza del Protocollo. L’Europa sta cercando di attuare un obiettivo più ambizioso di Kyoto, consistente nel tagliare le emissioni del 20% rispetto al 1990, però con scadenza 2020. Questo significherebbe per l’Italia un ulteriore taglio di altre 100 Mton… Ce la possiamo fare? Secondo me sì, varando in fretta un vasto programma di efficienza energetica pubblica e privata e investendo molto sulle fonti rinnovabili (e sulla ricerca), sui trasporti pubblici e sulla mobilità sostenibile. Secondo il governo no, e infatti oggi i ministri competenti (?) sono a Bruxelles in ginocchio da Barroso (foto) per pregarlo di avere un occhio di riguardo nei nostri confronti. Non abbiamo fatto niente finora e vogliamo continuare così per un pezzo…